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Per Aspera Ad Veritatem n.26
Intelligence e cinema

Antonio CARCIONE


We are through the looking glass:
Black is white, and white is black.
Lewis Carrol

Il cinema è per noi l’arte più importante.
Vladimir Il’ic Ul’janov




Lo spionaggio occupa un capitolo densissimo della storia del cinema, e tentare di trattarlo in termini esaurienti significherebbe iniziare una navigazione lunga e forse pericolosa: troppi i rimandi storici e letterari, sterminati gli elenchi biofilmografici. Bisogna rassegnarsi a una eroica incompletezza e armarsi di forbici per limitare il campo (e i danni).
Noi abbiamo scelto di prendere quattro punti di riferimento, tracciare una sorta di rosa dei venti attraverso la quale voi lettori potrete iniziare un viaggio personale, non importa se guidato dal disordine del desiderio o dal metodo. Potrete iniziare da queste pagine e allontanarvi per le vie che più soddisfano i vostri appetiti: il cinema è terra di onnivori, molto ospitale con chi è incapace di saziarsi.
Siamo partiti da alcuni scenari di guerra, cercando di seguire un itinerario che descrivesse i temi classici dello spionaggio intrecciandoli a suggestioni di altri generi e alla combinazione sacra e maledetta al tempo stesso: l’uomo e la donna giusti nel momento e nel luogo sbagliati (si sentono gli archi: s’infiamma il melodramma). Poi abbiamo affrontato la croce e la delizia del cinema americano: l’onda rossa, la minaccia comunista.
Alfred Hitchcock, che ha generato oceani di pellicola e d’inchiostro, l’abbiamo usato come agente provocatore prendendo in esame opere che ne mutuano atmosfere e tagli narrativi.
Infine abbiamo reso omaggio a quel cinema italiano medio e popolare, ormai definitivamente morto con nostro immenso dolore, pieno di trovate, capace di divorare generi e opere, di reinventare mondi interi, con un gusto per il guizzo registico, per la follia e il divertimento che non possono non generare ammirazione e culto sfrenati.



Il cinema delle origini è una fornace che brucia centinaia di storie, è quindi inevitabile che la figura della spia eserciti un fascino irresistibile. Non è la sostanza ad ammaliare, non è la valenza politica o militare, non è la figura alata della patria ma Paura intorno a questi protagonisti che rapisce la fantasia e segna un immaginario legato a qualcosa che non si conosce affatto, e che per questo viene ammantato di desiderio dorato, seme di una vita prodigiosa e senza limiti, chiave di una morale nuova, forse anche di un corpo nuovo catalizzatore di sensazioni e piaceri quasi innominabili. La spia è denso mistero, identità nascosta e amplificata al tempo stesso, incarnazione moderna dell’eroe solitario.
Con la Prima Guerra Mondiale arriva la figura ammaliatrice e sensuale della spia al femminile, condensata in un nome che evoca delizie da serraglio: Mata Hari (Margaretha Geertruida Zelle, 1876-1917). Stella di un tabarin parigino, viene arrestata e incriminata per spionaggio in favore degli Imperi Centrali. Verrà fucilata nel bosco di Vincennes all’alba del 15 ottobre 1917.
La spia fatale appare per la prima volta sullo schermo nel 1927, interpretata da Magda Sonia, ad opera del tedesco Friedrich Feher; nel 1964 sarà la volta di Jeanne Moreau diretta da Jean Louis Richard; del 1984 è invece la versione finto glamour e nudissima di Curtis Harrington, "Mata Hari" (Un corpo da spiare) con protagonista Sylvia Kristel. C’è anche una parodia satura della burrosità platinata di Zsa Zsa Gabor in "Up the Front" (1972).
La versione leggendaria, comunque, rimane quella interpretata da Greta Garbo in "Mata Hari" (id., 1932), regia di George Fitzmaurice: la spia deve sedurre il tenente russo Rosanoff (Ramon Novarro), del quale però s’innamora. Quando il generale Shubin (Lionel Barrymore), ex amante della donna, manda all’aria la missione per gelosia lei lo uccide. Saputo che Rosanoff è rimasto ferito la donna corre a vederlo, ma è arrestata dai francesi e condannata a morte.
La Garbo non sarà mai più così sensuale, sempre avvolta in tolette preziose, persa in sinuosità Jugendstil che la rendono evanescente, emanazione di luce radiante. Certe trasparenze, certe posture protese fanno sembrare la Divina una polena meravigliosa con lo sguardo lontano (e imprendibile, non impressionabile) dalla macchina da presa. Mata Hari è la moderna incarnazione della strega che invece di essere bruciata viene fucilata: un crudele riguardo per il feticcio del corpo.
Curioso il film di Renzo Merius "La figlia di Mata Hari" (1954): a Java, nel 1940, la figlia d’arte lavora al soldo dei giapponesi.
Del 1936 è il film "Mademoiselle Docteur" (Salonicco nido di spie) diretto dal tedesco Georg W. Pabst, storia d’amore e spionaggio ambientata durante la Grande Guerra, che in contro tendenza vede come protagonista la esile e minuta Dita Parlo (la figura di riferimento è l’agente Anne Marie Lesser). Nel 1969 Alberto Lattuada gira "Fraulein Doktor" rivisitazione del film pabstiano, in cui la protagonista morfinomane (Suzy Kendall), ispirata alla spia Elisabeth Schragmuller, deve sfuggire al controspionaggio alleato, ma anche agli agenti tedeschi che non la considerano più affidabile. Notevoli la ricostruzione d’epoca e la descrizione della disastrosa battaglia di Ypres.
Stazione imprescindibile del genere è "Shanghai Express" (id., 1932) diretto da Josef von Sternberg: nella lussuosa prima classe del treno Pechino-Shanghai (tre giorni di viaggio pericoloso, in una Cina sconvolta dalla guerra civile) prendono posto vari viaggiatori tra cui due prostitute d’alto bordo, Hui Fei (Anna May Wong) e Shanghai Lily (Marlene Dietrich). L’ufficiale inglese Donald Harvey (Clive Brook) riconosce in Lily una donna che ha amato alcuni anni prima, e che ama ancora: Magdalen.
Lungo il viaggio dei soldati governativi catturano una spia ribelle, ma a una stazione successiva il treno viene preso d’assalto e sequestrato dai rivoluzionari. Henry Chang (Warner Gland), viaggiatore della prima classe, si rivela essere un ufficiale rivoluzionario che insieme ai suoi compagni punisce alcuni trafficanti europei di diamanti e d’oppio.
I ribelli tengono in ostaggio prima alcuni passeggeri, poi la sola Lily, pretendendo in cambio l’immediato rilascio della spia arrestata. È a questo punto che Hui Fei, anche lei una spia, si introduce nello scompartimento di Chang e lo uccide. Dopo uno scontro a fuoco il treno riparte per Shanghai, dove Harvey e Magdalen tornano insieme.
Sternberg costruisce un repertorio iconografico di luoghi e caratteri che avranno grande influenza sull’immaginario (Hugo Pratt, per esempio, se ne ricorderà per alcune ambientazioni del suo Corto Maltese), e che ruotano intorno al volto della Dietrich. L’attrice è immagine di un erotismo oscuro, è inquietante, estatica.
La Dietrich non è Divina, il suo trucco non assume lo spessore della maschera. Il viso di Marlene è quello di una creatura che vive nella penombra, si alimenta di mezze luci: sul suo volto trascorrono modulazioni finissime. La diva "appartiene ancora a quel momento del cinema in cui la sola cattura del viso provocava il massimo turbamento, in cui ci si perdeva letteralmente in un’immagine. Il viso costituiva una specie di stato assoluto della carne che non si poteva raggiungere né abbandonare" (Roland Barthes).
Sternberg mise a punto un sistema d’illuminazione molto complesso, con varie lampade disposte sopra, accanto, sotto, dietro il viso da adorare. E poi ancora garze e velatini, schermi traforati fuori scena, oggetti disposti ad arte per infittire la trama delle ombre, e che richiedevano ore di prove, di montaggio e smontaggio cui la Dietrich si sottoponeva senza fiatare, complice di un gioco sado-masochista che legava attrice e regista e annullava ogni confine tra vita e set.
Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale riporta l’attenzione sulla spia maschio e maschia. Già i fumetti avevano dato un chiaro segnale alla metà degli anni trenta con l’arrivo dell’agente X-9 creato da Alex Raymond. Il protagonista non sbaglia mai un colpo, ha la mascella quadrata, i capelli lucidi e pettinatissimi, è sempre impeccabile nei suoi completi sportivi.
Eccentrico è "Man Hunt" (Duello mortale), film girato a Hollywood nel 1941 dal maestro tedesco Fritz Lang: il capitano Thorndike (Walter Pidgeon) è a caccia in Baviera, e un giorno a Berchtesgaden arriva in prossimità della residenza di Hitler. L’ufficiale vede il dittatore in giardino, lo inquadra nel mirino e preme il grilletto: ma il fucile è scarico. Decide allora di caricare il fucile, ma quando sta per sparare viene scoperto e arrestato dalla Gestapo. Dopo alcuni giorni di prigionia Thorndike riesce a fuggire e a tornare a Londra. Ovviamente è inseguito da una folla di spie naziste.
Nel 1946 Lang torna allo spy movie con "Cloak and Dagger" (Maschere e pugnali): Gina (Lilli Palmer), figlia dello scienziato italiano Polda (Vladimir Sokoloff), viene tenuta in ostaggio dai nazifascisti per obbligare il padre a lavorare sulla bomba atomica. L’OSS (Office of Strategic Services) incarica il professor Alvah Jasper (Gary Cooper) di recarsi in Italia, e collaborare con i partigiani per liberare i due.
Accettabile la ricostruzione dell’Italia prossima al crollo, e molto bella una scena di lotta tra Jasper e un fascista, in cui Cooper (senza controfigura) sfoggia alcune mosse di karate: una vera rarità per l’epoca.
Lang voleva un finale crudele in cui il professor Polda muore d’infarto sull’aereo che lo porta in salvo, ma la Warner Bros. si oppose aspramente. Lo Studio tagliò anche l’ultima frase pronunciata da Cooper: "Pace? Non c’è pace. È l’anno uno dell’era atomica, che Dio ci aiuti".
Indossiamo ora la cravatta nera per parlare di un film santo, "Casablanca" (id., 1942) diretto da Michael Curtiz: al Rick’s Bar di Casablanca, gestito dal ruvido Rick Blaine (Humphrey Bogart), c’è di tutto: musica, risse, sesso, gioco sporco, amore, patriottismo, spionaggio, canaglie ed eroi. L’atmosfera si fa rovente quando arrivano Victor Laszlo (Paul Henreid), eroe della resistenza, e sua moglie Ilse (Ingrid Bergman) ex fiamma, ancora accesissima, di Rick. La coppia cerca disperatamente dei documenti per lasciare il Marocco: sarà Rick a procurarli. Boogey perde l’amore ma ritrova l’impegno morale, sventolando la bandiera dell’interventismo roosveltiano.
Quasi impossibile scrivere ancora di questo film. Bogart, nella parte che doveva essere di Ronald Reagan, è inarrivabile con la sua smorfia e il tuxedo immacolato. Il film sembra perfetto ma la lavorazione fu un inferno, con cambio d’attori fino all’ultimo momento, e la sceneggiatura che veniva scritta giorno per giorno. Gli autori, costretti a improvvisare, lasciavano aperte più strade possibili mettendo dentro di tutto.
Ogni personaggio incarna diversi archetipi: Bogart è l’avventuriero ambiguo, cinico e generoso; il solitario quasi ascetico a causa di un amore infelice, ma anche il redento e per farlo redimere meglio bisogna alcolizzarlo. Quindi uischi e soda a secchi (poca soda, mi raccomando). La Bergman, sempre angelica, è una donna misteriosa ma anche fatale, memoria di un ultimo giorno felice (a Parigi ovviamente), che dice cose tipo "senti caro la nostra canzone". Henreid è l’eroe puro che avrà la donna ma non il suo amore. Su tutto quindi il Sacrificio e l’Amore Infelice. Ha ragione Umberto Eco: "quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza, si raggiungono profondità omeriche".
Sapiente e politicamente schierata la sequenza d’apertura con l’esotismo del Marocco, poi una melodia arabeggiante che sfuma nelle note della Marsigliese. Quando si arriva nel locale di Rick si ode Gershwin. L’Africa e la Francia da liberare, l’America che interviene.
Il film uscì in Italia nel 1945 e vennero tagliati tutti i riferimenti alla guerra in Africa Orientale, all’intervento italiano in Spagna, come venne fatto scomparire il personaggio del viscido ufficiale capitano Tonelli (Charles La Torre), preoccupato solo dell’uniforme e del perfetto saluto romano.
Sempre del 1942 è il film "Saboteur" (Sabotatori/Danger) diretto da Alfred Hitchcock: Barry Cane (Robert Cummings), impiegato in una fabbrica di munizioni, è accusato ingiustamente di aver preparato degli attentati. Riesce a fuggire e indagando capisce chi è il vero colpevole: Fry (Norman Lloyd), un altro operaio. Cane inseguirà Fry dalla California fino a New York, aiutato da Pat (Priscilla Lane), coinvolta per caso nella vicenda. Tutto si conclude sulla testa della Statua della Libertà.
Il film si basa su una struttura molto cara a Hitch: un innocente ingiustamente accusato e inseguito, che a sua volta insegue il vero colpevole. Il meccanismo è ancora molto divertente, e non un singolo ingranaggio cigola culminando nel finale, magistrale per perizia registica e di montaggio, in cui il cattivo precipita dalla gigantesca statua.
Alfred Hitchcock è uno straordinario costruttore di forme, un freddo scommettitore su storie impossibili sempre in precario equilibrio. La congruenza della vicenda lo preoccupa meno dell’atmosfera e dei particolari, e talvolta sembra si crei le difficoltà solo per il gusto di superarle. A Hollywood porta con sé una fedeltà puritana alle origini inglesi, una ferocia misantropica e misogina che riesce con abilità a innestare nella società che lo accoglie.
"Notorious" (Notorious-l’amante perduta, 1946) è la prima gemma della carriera americana di Hitchcock, anche se alla sua uscita non tutti accolsero il film positivamente forse per la poca aderenza ai canoni della spy story. Tutto inizia quando Alicia Huberman (Ingrid Bergman), figlia di una spia nazista, viene avvicinata dall’agente Devlin (Cary Grant) che le offre la possibilità di riabilitare il suo nome servendo gli Stati Uniti. Lei accetta e i due partono per Rio.
Alicia s’innamora di Devlin e cerca di fargli capire che è cambiata. Anche Devlin ha una forte attrazione per la donna, ma in cuor suo continua a disprezzarla. Giunto il momento di comunicare qual è la missione da compiere - sedurre un vecchio amico del padre, Alexander Sebastian (Claude Rains), e infiltrarsi nella sua abitazione, covo di spie naziste - Devlin spera che Alicia si rifiuti. A sua volta Alicia spera che Devlin le impedisca di accettare l’incarico. Ma succede qualcosa d’imprevisto: Sebastian chiede di sposare Alicia, che accetta.Durante una festa in casa di Sebastian, Devlin scopre in cantina bottiglie di champagne piene di uranio. Sebastian, accortosi dell’intrusione, e su consiglio della madre (Leopoldine Konstantin), decide di avvelenare lentamente la moglie traditrice. Quando rivedrà Alicia, Devlin scambierà i sintomi dell’avvelenamento per effetti dell’alcol. Poi, però, stupito di non vedere più la donna agli appuntamenti si reca a casa Sebastian. Qui Devlin trova Alicia allo stremo: le dichiara il suo amore, poi la porta via. Sebastian rimane da solo con i suoi complici, in una situazione che non gli lascia scampo.
Ci siamo soffermati sulla trama perché è evidente che per la vicenda di spionaggio Hitchcock non nutre grande interesse. Le spie naziste e l’uranio sono elementi che il regista definisce Mac Guffin, cioè il pretesto che innesca gli eventi. In realtà il cuore del racconto è la sofferenza di un uomo che è costretto da una missione segreta a vedere la donna che ama tra le braccia e nel letto di un altro. Hitchcock si identifica con Devlin e prepara per il volto della Bergman inquadrature struggenti e adoranti.
"Notorious" è un film sensuale e i corpi, i volti come la materia (metallo, vetro, gioielli, la chiave della cantina) hanno come un’incandescenza. In questa vicenda intessuta di reticenze, i gesti sono preziosi, come vediamo durante la festa quando i due amanti sono costretti a contenere ogni reazione, ogni possibile indizio. Quando Devlin arriva per strappare Alicia alla morte la macchina da presa gira intorno ai due innamorati, li accarezza, soffia desiderio. Per la cronaca questo non è il bacio più lungo della storia del cinema. Il record si trova nel film "You’re in the army now" (1940), diretto da Lewis Seiler, in cui Regis Toomey e Jane Wyman si danno un bacio lungo 3’ 5".
In tempi recenti il cinema è tornato ad ambientare storie di spionaggio nello scenario della Seconda Guerra Mondiale. Un piccolo classico è "Eye of the needle" (La cruna dell’ago, 1981), diretto da Richard Marquand e tratto dall’omonimo romanzo di Ken Follett. Faber (Donald Sutherland) è una spia nazista che agisce in territorio inglese, e ha raccolto informazioni che possono compromettere seriamente il D-Day. Mentre cerca di raggiungere con una barca il punto d’incontro con l’U-Boot che lo riporterà in Germania, l’agente viene sorpreso da una burrasca che lo trascinerà sulle coste di un’isola sperduta. Qui verrà accolto da Lucy (Kate Nellygan), che vive sull’isola insieme al marito paraplegico (Christopher Cazenove). Tra Lucy e Faber nascerà una grande passione, ma quando la donna scoprirà la vera identità del nuovo arrivato non esiterà a ucciderlo.
Questo è più di uno spy-movie o di un semplice thriller, è un film che si confronta con la natura umana, uno studio di caratteri e comportamenti descritti con grande sottigliezza grazie a una dettagliata ambientazione e all’interpretazione degli attori. Le sfumature dell’indifesa Lucy, e le ambiguità di Faber (Sutherland straordinario come sempre) sono i colori e il sale di questo gioiello.
Del 1992 è il film "Shining Through" (Vite sospese), diretto da David Seltzer: nella New York del 1942 Linda Voss (Melanie Griffith), ragazza di origine tedesca, scopre che l’uomo d’affari per cui lavora (Michael Douglas) è in realtà un ufficiale dei servizi segreti. Dopo molte insistenze Linda riesce a farsi inviare a Berlino, dove un anziano professore (John Gielgud) la introduce come governante in casa di un alto ufficiale nazista (Liam Neeson), addetto al progetto di un’arma segreta. Finale (che non vi sveliamo) eccessivo eppure credibile, che mescola azione e romanticismo con un’abilità sfacciata degna dei piccoli classici del passato.
"Enigma" (id., 2001) diretto da Michael Apted, tratto dall’omonimo romanzo di Robert Harris, è ambientato tra gli analisti e i matematici che operavano a Bletchley Park, leggendario quartier generale dei Servizi britannici. Tom Jericho (Dougray Scott) sta lavorando alla decrittazione del micidiale codice Enigma, che permette ai sommergibili nazisti di operare indisturbati. Sospetta è la sparizione della sua ex fidanzata Claire (Suffron Burrows). Un semplice fatto di cronaca, o l’azione di una rete di spionaggio nemico? Tom indaga aiutato dalla dattilografa Hester Wallace (Kate Winslet). Il film purtroppo segue più le tracce della ragazza scomparsa che il mistero Enigma, risultando quindi alquanto frustrante.
Le stesse vicende, ma da un punto di vista puramente bellico, vengono seguite dal film "U-571" (id., 2000), regia di Jonathan Mostow, in cui un equipaggio americano comandato dall’Lt. Andrew Tyler (Matthew McConaughey) s’impossessa di un U-Boot e di una macchina Enigma. Tutto molto affascinante e avvincente ma con un piccolo particolare: il merito dell’operazione fu esclusivamente inglese (giuste e risentite proteste della Marina di Sua Maestà Britannica).



Il comunismo è stato per l’America l’orco famelico e devastatore delle favole. La memoria storica, però, risulta essere di respiro corto se si dimentica che fino a tutti gli anni trenta Hollywood riusciva perfino a ridere della Russia Sovietica: in "Tovarich" (id. 1937, regia di Anatole Litvak) Claudette Colbert e Charles Boyer, aristocratici zaristi, fuggono in America e finiscono per lavorare come camerieri in un ristorante.
Poi nel 1939 arriva il capolavoro "Ninotchka" (id.), diretto dal maestro della commedia Ernst Lubitsch. Nel film la divina Greta Garbo veste i panni di Nina Yakusciova detta Ninotchka, integerrimo commissario dei Soviet, che arriva a Parigi per riportare sulla retta via marxista i compagni Iranoff, Buljanoff e Kopalski, tre funzionari fuggiaschi caduti nelle malìe della decadenza occidentale (hotel di lusso, tabarin, cameriere compiacenti e ovviamente fiumi di champagne). Ma anche Ninotchka vedrà crollare la sua fede politica grazie all’amore per il flaneur Léon (uno strepitoso Melvyn Douglas). È una conversione, un ravvedimento: la scelta di campo (l’occidente redentore) è sottolineata da una risata liberatoria. La Garbo ride! urlavano manifesti e insegne luminose in ogni angolo di America.
Visto il grande successo del fattore sovietico vengono sfornate altre due commedie: la prima "Comrade X" (Corrispondente X, 1940), diretta da King Vidor, vede il giornalista/agente americano McKinley (Clark Gable) innamorarsi di una conducente d’autobus moscovita (Hedy Lamarr); la seconda (1940) "He stayed for breakfast" (Ha da venì..., regia di Alexander Hall) segue Melvyn Douglas, questa volta agente sovietico, mentre viene iniziato alle delizie dello stile americano dalla sfarfallante Loretta Young. Dal canto suo anche Bugs Bunny si mobilita arruolandosi in aviazione, ma più che dai nazisti viene tormentato dai dispettosissimi "Gremlins from the Cremlin" gli stessi folletti pelosi che incontreremo negli anni ‘80 nei due film di Joe Dante.
Con la guerra le risate fanno posto ai colpi di fucile e sugli schermi arrivano le vicende dei "coraggiosi alleati" russi: primo fra tutti un film di Mitchel Leisen del 1940, "Arise my love" (Arrivederci in Francia) ambientato durante la Guerra Civile Spagnola, in cui il pilota repubblicano Ray Milland viene salvato da Claudette Colbert, che sfoggia in ogni occasione una impeccabile e vezzosa permanente.
In "The North Star" (1943, regia di Lewis Milestone) i protagonisti sono Anne Baxter e Dana Andrews, agenti della resistenza, cui da la caccia Erich von Stroheim sublime e sadico ufficiale tedesco.
"Days of glory" (Tamara figlia della steppa, 1944), regia di Jacques Tourner, segue le prime tragiche settimane dell’operazione Barbarossa attraverso le vicende di una ballerina (Tamara Toumanova) entrata nella resistenza e di un combattente/contadino (Gregory Peck).
II 25 aprile 1945 G.I. americani e soldati russi si stringono per l’ultima volta la mano sulle rovine di Torgau. Inizia da qui una nuova guerra: nei poligoni americani viene staccato dai bersagli il ritratto di Hitler e appeso quello di Stalin. Arriva l’incubo della falce e martello, il terrore del cosacco e del primo maggio. L’ossessione di tutti i Mr. Smith e i John Doe d’America diviene l’invasione, e allora dai a rifornire le dispense di scatolame, a istruire la mogliettina sull’uso di un pratico revolver o ordinare per posta maschere antigas. Better dead than red.
La cosa che preoccupa di più, il tarlo che lavora instancabile, è quello dei "dormienti", agenti speciali e all’apparenza americanissimi che da un momento all’altro possono iniziare la loro missione. Magari abitano una linda villetta a schiera e falciano l’erba il sabato mattina, possono essere lattai, postini o il vostro collega di ufficio.
È questo lo scenario tratteggiato da "I married a Communist" (1950, regia di John Boulting) che pone una devastante domanda alle brave massaie: cosa fareste se scopriste che vostro marito è un comunista? In verità Laraine Day sembra più preoccupata per il suo filo di perle, o per la cucina di formica che per le sorti del paese, mentre il signor marito Robert Ryan sembra più un mafioso che un agitprop.
L’anno prima già un altro film, inglese questa volta, aveva indagato l’eventualità di avere un comunista nel letto: "Conspirator" (Alto Tradimento) diretto da Victor Saville che narra la vicenda di Melinda (Elyzabeth Taylor), una giovane americana in vacanza a Londra, che incontra e subito sposa il maggiore Curragh (Robert Taylor). Ovviamente la donna scopre la vera identità del marito, il che ci porta a due conclusioni: o le casalinghe americane erano straordinari agenti del controspionaggio o i servizi sovietici erano in mano a un branco di deficienti.
Molto interessanti, come testimonianze di un’epoca, sono i film: "I was a communist for the FBI" (1951) diretto da Gordon Douglas che traccia, in chiave quasi documentaristica, la cronaca di un’operazione di controspionaggio, e "My son John" (1952, regia di Leo McCarey) in cui una coppia di apple-pie parents (Helen Hayes e Dean Jagger) sospetta che il figlio sia un comunista (un superbo Robert Walker nella sua ultima interpretazione).
Questi sono anni di caccia alle streghe, di tribunali per le Attività Antiamericane, di liste nere. Il 19 giugno 1953 Julius Rosenberg e Ethel Greenglass, ebrei e comunisti, vengono giustiziati sulla sedia elettrica perché riconosciuti colpevoli di spionaggio atomico in favore deIl’Unione Sovietica. Nel 1983 Sidney Lumet dirige "Daniel", storia di una coppia di fratelli (nel film non si dice ma si capisce che sono i figli dei Rosenberg) che devono affrontare il peso delle loro origini a più di dieci anni dalla morte dei genitori.
Il capolavoro rimane comunque "The Manchiurian Candidate" (Và e uccidi, 1962) diretto da John Frankenheimer: sul 38° parallelo una pattuglia americana viene rapita dai servizi nord-coreani e inserita in un programma di condizionamento rapido. Il sergente Raymond Shaw (Laurence Harvey), una volta ritornato in patria, inizia ad essere preda di raptus omicidi dei quali intendono servirsi la madre (Angela Lansbury) e il patrigno per uccidere un futuro candidato democratico alla presidenza. Contemporaneamente un ufficiale, anche lui condizionato (Frank Sinatra), inizia ad avere delle allucinazioni che lo porteranno sulle tracce dei cospiratori. Il film mantiene ancora intatta la sua potenza visiva e prefigura, in un certo senso, l’assassinio Kennedy dando una chiara idea del clima politico del momento. Sia i democratici che i repubblicani avversarono il film, segno che Frankenheimer e lo sceneggiatore George Axelrod, adattando il romanzo di Richard Condon, si erano infilati in un ginepraio. Ora barocco, ora surreale "Và e uccidi" è uno dei film americani più interessanti del dopoguerra, modello di sapienza registica e narrativa come si deduce dalla sequenza asfissiante del condizionamento: nemmeno noi che guardiamo riusciamo a capire se sia vera o solo un’allucinazione la platea americanissima di signore sferruzzanti e impiegatucci che assiste impassibile al massacro psicologico.
La paura del diverso perfettamente uguale non si ferma agli anni del macarthysmo, serpeggia nella storia del cinema americano con andamento carsico: in "The deadly affair" (Chiamata per il morto, 1967) l’agente Charles Dobbs (James Mason) indaga su Samuel Fennan (Robert Flemyng), insospettabile funzionario britannico.
"Telefon" (id., 1977), diretto da Donald Siegel, è interessante per la prospettiva, diciamo così, sovietizzata in cui Nicolas Dalchimsky (Donald Pleasence), agente russo contrario alla distensione, decide di dare il via all’operazione Telefon che prevede una serie di attentati in territorio americano. Chiama al telefono agenti condizionati risvegliandoli con una formula chiave (alcuni versi del poeta Robert Frost: i boschi sono belli e profondi/ma ho promesse da mantenere/e miglia da percorrere), assegnandogli poi un obiettivo. Per eliminare Dalchimsky viene inviato negli States l’ufficiale del KGB Grigori Borzov (Charles Bronson) che, facendosi aiutare dall’ambigua Barbara (Lee Remick), riuscirà nell’intento, incontrerà l’amore e, beffando tutti, sparirà nel nulla con i nomi degli agenti-bomba superstiti.
Del 1987 è "No way out" (Senza via di scampo) diretto da Roger Donaldson: il segretario della Difesa (Gene Hackman) durante una lite uccide la sua amante Susan (Sean Young). La donna ha anche una relazione col capitano di corvetta Farell (Kevin Costner non ancora star) che viene incaricato delle indagini sull’omicidio. Per depistare le indagini l’uccisione viene imputata al fantomatico agente sovietico Jurij, visto sulla scena dell’omicidio. In realtà l’ombra vista uscire dalla casa di Susan è proprio Farell, che quindi è costretto a indagare su se stesso. Finale a sorpresa: Farell è Jurij.
In "Little Nikita" (Nikita-Spie senza volto, 1988) diretto da Richard Benjamin, un agente federale (Sidney Poitier) avverte un ragazzo (River Phoenix) che i suoi genitori all american sono in realtà agenti russi e che un terzo agente è stato incaricato di eliminare la famiglia perché non più affidabile.
"La forza del passato" (2002), diretto da Piergiorgio Gay, è un raro caso italiano: tratto dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi, il film racconta di uno scrittore (Sergio Rubini) che attraverso le rivelazioni di un uomo misterioso (Bruno Ganz) scopre che il padre, integerrimo generale dell’esercito, era in realtà un agente del KGB.
La mancanza di mezzi produttivi rinchiude il film in interni spesso sciatti e la vicenda si concentra su un’opaca indagine psicologica.
Ma il vero terrore, la madre di tutte le paure, è l’invasione: svegliarsi una radiosa mattina e vedere la marca dei cereali preferiti scritta in cirillico.
Già nel 1952 esce il film "Invasion U.S.A.", diretto da Alfred E. Green, titolo che dice tutto e non ci risparmia la storia d’amore tra i due imbambolati Gerald Mohr e Peggie Castle (le sequenze di guerra aerea sono fornite dal Pentagono). In piena era reaganiana il film viene riproposto in una nuova versione diretta da Joseph Zito ("Invasion U.S.A", id. 1985) con protagonista la macchina ammazzacattivi Chuk Norris.Molto interessante, e a suo modo un piccolo capo d’opera, è invece "Red Dawn" (Alba Rossa, 1984) diretto da John Milius: gli Stati Uniti vengono invasi da un esercito russo-cubano, e un gruppo di liceali (tra cui un giovane Patrick Swayze) si rifugia nei boschi organizzandosi in una banda di resistenti. Eccessivo, sballato, ideologicamente assurdo ma incredibilmente divertente, il film ribalta piani e ruoli: i comunisti sono i bianchi invasori crudeli, gli americani sono i nativi che si difendono con archi e frecce. Memorabile la scena d’inizio: in una scuola di campagna un professore interrompe improvvisamente la lezione di storia vedendo il cielo riempirsi di centinaia di paracadute.
Molto importanti, e quasi genere a sé, sono i film che descrivono invasioni aliene che, sarà un caso, coinvolgono sempre gli States. Opera di riferimento indiscussa rimane "Invasion of the body snatchers" (L’Invasione degli ultracorpi, 1956) diretto da Don Siegel, tratto da un racconto di Jack Finney intitolato "Gli invasati": Miles Bennel (Kevin McCarthy) è il medico della piccola città di Santa Mira. Ricoverato in ospedale in preda a una specie di delirio, racconta che esaminando un cadavere ha scoperto che il corpo era privo di circolazione sanguigna. Poco dopo la terribile scoperta: è iniziata un’invasione di alieni che di notte acquistano corpi e fattezze umane in giganteschi baccelli, sostituendosi ai terrestri durante il sonno.
Disperato, Bennel decide di fuggire con la fidanzata Becky Driscoll (Dana Wynter), ma improvvisamente anche la donna si trasforma. Lungo la strada l’uomo cerca di fermare gli automobilisti, ma nessuno lo ascolta. Solo quando, a causa di un incidente stradale, viene intercettato un camion pieno di baccelli le autorità dichiarano emergenza.
Siegel avrebbe voluto finire il film su un primo piano di McCarthy che urla alla platea "You’re next!", ma la produzione ritenne la cosa allarmante e preferì un lieto fine. Nel tempo sono state proposte tre letture dell’opera: la più semplice, prendendo anche spunto dal cognome dell’attore protagonista, identificava i baccelli con la minaccia comunista, ma alla fine degli anni sessanta i baccelli alieni vennero identificati con l’omologazione governativa. È più probabile che Siegel volesse rappresentare la ribellione dell’individualismo romantico contro il conformismo istituzionalizzato.
Nel 1978 esce una nuova versione del film, "Invasion of the Body Snatchers" (Terrore dallo spazio profondo), diretta da Philip Kaufman: le dinamiche internazionali sono cambiate e il film smorza i riferimenti politici. C’è più attenzione all’effetto, all’acuto orrorifico, al disgusto organico della mutazione, ma è molto efficace l’atmosfera apparentemente tranquilla che ogni tanto lascia trasparire indizi dell’invasione in corso. Gustosa la citazione cinefila che vede Kevin McCarthy, protagonista del film siegeliano, correre per la strada ancora in fuga.
Abel Ferrara dirige un nuovo remake nel 1993, "Body snatchers" (Ultracorpi-l’invasione continua), e riprende la lettura politica ma chiudendo la vicenda in una base dell’esercito (Fort Daly, Alabama) trasformando così uno dei simboli fondanti la nazione americana nell’avanguardia
dell’invasione. Inquietante il personaggio del medico (Forrest Whitaker) che si è accorto delle trasformazioni e delira imbottito di anfetamine per non dormire.
Ferrara parte da una figura basilare nel cinema americano: l’assedio. Il cerchio di carri che si difendono dagli indiani è metafora identitaria e nazionale, luogo in cui ci si chiude per riconoscersi e opporsi a un outback ostile, solo che questa volta il limite è costituito dal corpo stesso (in proposito si legga il racconto di Philip K. Dick, illuminante come sempre, "Oh essere un Blobel!", scritto nel 1963).
Fondamentale per questa visione è il film di John Carpenter "The Thing" (La Cosa, 1982): il comandante MacReady (Kurt Russel), responsabile di una base artica, scopre un’astronave aliena e il suo equipaggio capace di assumere qualsiasi sembianza. Finirà in un massacro. Carpenter, però, insinua il dubbio che ci si possa identificare con il diverso, che si rimanga intrappolati tra apparenza e realtà che governano da dentro e da fuori non solo il mondo dei valori (Bene/Male), ma anche quello sensoriale (Vero/Falso, Io/l’Altro da me).
Con la caduta del muro di Berlino gli assetti geopolitici cambiano ma non a Hollywood. Anzi l’esplosione della galassia sovietica ha frammentato e aumentato il pericolo, e adesso la minaccia è costituita da nostalgici e schegge impazzite: in "The Saint" (Il Santo, 1997, regia di Philip Noyce), Simon Templar (Val Kilmer), ladro-trasformista-gentiluomo creato dalla penna di Laslie Charteris, ruba la formula della fusione fredda ma quando deve consegnarla a un leader neozarista (Rade Serbedzija) si fa prendere dall’orgoglio patriottico.
In "The peacemaker" (id., 1997), regia di Mimi Leder, il fisico nucleare Julia Kelly (Nicole Kidman, è il cinema...) e il colonnello dei Servizi Thomas Devoe (George Clooney, sempre il cinema...) devono intercettare un gruppo di trafficanti che rubano ordigni nucleari dagli arsenali sovietici.
"Air Force One" (id., 1997), diretto da Wolfgang Petersen, vede un presidente guerriero (Harrison Ford) difendere da solo famiglia, amministrazione, aereo presidenziale e democrazia da un gruppo di terroristi ceceni, comandati da un non troppo convinto Gary Oldman.
Atipico lo scenario americano del divertente "Terminal Velocity" (id., 1994) diretto da Deran Sarafian, in cui un gruppo di ex-spie russe cerca di far fuori una collega (Nastassja Kinski) in possesso di un file segretissimo. La donna è aiutata da un istruttore di paracadutismo (Charlie Sheen) con la personalità di un seienne, il che dà al film un andamento da looney toon.
Anche il cinema documentario ha un suo ruolo e uno dei migliori esempi rimane "We’ll bury you" (1961) antologia di situazioni, raccomandazioni, soluzioni inerenti il pericolo russo. Il controcanto arriva nel 1982 con il documentario antologico e di controinformazione "Atomic Cafè" (id.), diretto da Kevin Rafferty, Jayne Loader, Pierce Rafferty che raccoglie filmati educational governativi girati negli anni ‘50.
Come spesso accade, comunque, l’insieme delle tante facce che compongono la società americana media del periodo si trova nel luogo meno prevedibile: in un cartone animato. Al principio degli anni ‘70 la coppia d’oro William Hanna e Joe Barbera dà vita alla geniale serie "Wait till your father gets home" (in onda su diverse emittenti dal 1972 al 1974). Protagonista della serie è la famiglia Boyle, che abita una villetta con giardino a Elm Street nei sobborghi di Los Angeles: Harry, padre e marito premuroso, piccolo imprenditore in forniture per ristoranti; Irma moglie affettuosa ed efficiente con fantasie da femminista; Chet, il figlio maggiore, un freak che vive in un mondo tutto suo; Alice, attivista politica con problemi di peso; Jamie, 9 anni, capitalista senza scrupoli.
Le vicende familiari sono continuamente integrate, interrotte, deviate da una Milizia di quartiere anticomunista creata e comandata dal farneticante vicino di casa Ralph, quarantenne nevrotico che somiglia a Nixon, continuamente impegnato a decifrare e sgominare cospirazioni. La casalinghitudine militarizzata sortisce effetti comici straordinari, aumentati dalla sgangherata truppa del vicinato capitanata dal sergente Wittaker: una pensionata ottantenne agguerritissima sempre a caccia di infiltrati, microfoni nascosti, segnali in codice.
Hanna & Barbera scattano una straordinaria polaroid dell’America media con le manie consumistiche e le rigidità tradizionali, la guerra del Vietnam nei suoi ultimi terribili anni, la presidenza Nixon e la delusione del Watergate, le estati di amore e musica rock, la pop-art tutto amalgamato in una densità da saggio ma con la leggerezza di un cartoon. Insomma un capolavoro.



Nel 1959 Alfred Hitchcock dirige "North by Northwest" (Intrigo internazionale): Roger Thornhill (Cary Grant), pubblicitario per una compagnia newyorchese, viene scambiato per l’inesistente agente Kaplan, creato dal controspionaggio per depistare agenti nemici. Inseguito dalla polizia, da un nugolo di spie, incriminato per l’omicidio di un diplomatico, Thornhill riesce a sfuggire con l’aiuto della doppiogiochista Eva Kendall (Eve Marie Saint), incontrata su un treno. Finale memorabile sulla cima del monte Rushmore.
Il film è la summa dei vent’anni americani di Hitchcock e contiene una sequenza leggendaria: sette minuti senza dialogo in cui Thornhill si presenta a un appuntamento in mezzo a una piantagione di mais e viene bersagliato da un biplano. L’aereo finirà per schiantarsi contro un’autocisterna. Nasce così il cinema d’azione come oggi lo conosciamo.I temi cari al regista ci sono tutti: l’innocente in fuga, i giochi delle apparenze, gli scambi di persona, l’itinerario iniziatico della coppia, l’ambiguità della figura femminile. Da segnalare ancora l’audacia del finale in cui Eva, sospesa nel vuoto sul monte Rushmore, viene afferrata da Thornhill finendo direttamente, grazie al montaggio, sulla cuccetta del wagon-lit. Le coordinate del titolo, che nessun distributore straniero si è azzardato a tradurre, sono un controsenso topografico.
Negli anni immediatamente successivi due film portano il marchio indelebile del grande inglese, se ne sente il profumo lontano un chilometro: "Charade" (1963) e "Arabesque" (1966) diretti da Stanley Donen. In "Charade", ambientato a Parigi, Regina "Reggie" Lambert (Audrey Hepburn) scopre il cadavere di suo marito. La donna indaga per capire le ragioni dell’omicidio, e viene aiutata da un certo Peter Joshua (Cary Grant) che sembra custodire un segreto sull’accaduto. Molti personaggi ambigui girano intorno a Reggie: la vogliono aiutare o sono interessati a qualcosa di misterioso?
Il film mantiene intatta la sua freschezza a dispetto dei decenni. Inutile dire che gran parte del merito va alla coppia supersofisticata, che fa versare calde lacrime di nostalgia per Hollywood dei tempi d’oro. Donen, regista di musical ("Singin’ in the rain"), muove l’azione come se dirigesse un balletto e, scelta sottile, arruola Walter Matthau come agente cattivo e doppiogiochista (ma ci sono anche un ottimo James Coburn e George Kennedy nel ruolo del killer Herman Scobie).
"Arabesque" è, forse, meno frizzante ma ha una divertente e divertita interpretazione di Gregory Peck nei panni di David Pollock, professore oxfordiano di egittologia, dinoccolato e distratto, incaricato dal principe arabo Beshraavi (Alan Badel) di decifrare un’iscrizione in geroglifici. In casa di Beshraavi il professore incontra Yasmin Azir (Sophia Loren), anche lei interessata alla traduzione dell’iscrizione. È qui che inizia un gioco di inseguimenti, colpi di scena, tradimenti che porterà Pollock e Yasmin attraverso peripezie e acrobazie in lungo e in largo per Londra (zoo compreso). Molto bella una lunga scena d’inseguimento elicottero contro cavalli.
In tempi recenti Hollywood ha recuperato la figura dell’innocente al centro di una cospirazione: in "The Net" (The Net-intrappolata nella rete, 1995) diretto da Irwin Winkler Angela Bennett (Sandra Bullock), un’analista informatica, viene casualmente in possesso di un file che è la prova di un complotto ad opera di un gruppo denominato "pretorians". I "Servizi deviati" vogliono mettere a segno una serie di azioni per costringere il governo a irrigidire le leggi sulle libertà personali. Angela conosce per caso Jack Devlin (Jeremy Northam) che all’inizio sembra volerla aiutare, per poi rivelarsi un killer spietato.
L’idea di scegliere una giovane donna come protagonista è interessante, ma il film procede per svolte troppo meccaniche togliendo spessore alla vicenda. Northam, ottimo attore inglese, è il sale del film.
"Enemy of the State" (Nemico pubblico, 1998) diretto da Tony Scott, affronta il problema del controllo sulla vita privata del cittadino: un alto dirigente della sicurezza nazionale (Jon Voight) non esita a uccidere un senatore per fare approvare un programma di controllo della privacy.
L’avvocato Robert Clayton Dean (Will Smith), impegnato in un’indagine di mafia, viene casualmente in possesso delle prove dell’omicidio. Sarà l’inizio di una guerra tra un cittadino e il sistema.
L’idea dell’innocente in fuga funziona ancora, ma il complesso apparato ipertecnologico in certi momenti è ingombrante e i comprimari risultano essere più interessanti dei protagonisti: affascinante la figura dell’ex agente CIA (Gene Hackman sempre grande) che si è fatto terra bruciata intorno e vive in un bunker; da antologia il capomafia (Tom Sizemore) rintanato nel suo ristorante a ingozzarsi di "lasagn’ e mulignane", circondato da sgherri armati fino ai denti.
Adesso torniamo indietro verso gli anni 70 per affrontare due film che hanno sicuramente alcuni debiti con i testi hitchcockiani, ma che li rivisitano e modificano secondo l’ottica venata di rivoluzione che la nuova onda di registi impone al cinema americano: "The Parallax View" e "Three days of the Condor".
La crisi del sistema industriale hollywoodiano inizia negli anni sessanta con lo strapotere televisivo, e raggiunge il culmine nel decennio successivo con la scomparsa dei generi. I registi non sono più uomini al servizio di un’idea di cinema, codificata e organizzata secondo le ripartizioni delle grandi case di produzione (Studio System). Arriva sui set una generazione di registi che hanno studiato cinema all’università, che hanno alle spalle una posizione politica, che impongono dall’interno una visione nuova, destabilizzante eppure capace di usare gli stessi elementi spettacolari del cinema dei padri.
"The Parallax View" (Perché un assassinio, 1974) diretto da Alan J. Pakula inizia con l’uccisione, a Seattle, del senatore Carrol candidato alla presidenza. La commissione d’inchiesta conclude che l’azione è stata portata a termine da un singolo attentatore, e che è da escludere ogni tipo di trama eversiva. Tre anni dopo il giornalista Joe Frady (Warren Beatty) viene contattato dalla collega Lee Carter (Paula Prentiss), che era al seguito del senatore assassinato, la quale racconta di una serie di morti inspiegabili e strani incidenti tra i testimoni dell’omicidio. Frady non crede al complotto e liquida rapidamente la giornalista. Uno stacco netto ci porta in un obitorio dove su un tavolo giace il cadavere della donna.
Frady si reca a Salmontail, cittadina in cui è morto uno dei testimoni, dove viene aggredito dallo stesso sceriffo non appena inizia a fare domande. Frady riesce a fuggire, non prima di aver trovato dei documenti che portano tutti l’intestazione "Parallax Corporation". Tra le carte c’è una serie di test che, esaminati da uno psicologo, risultano essere assemblati per rilevare gli istinti violenti del compilatore. Joe si fa preparare i test per corrispondere al profilo di un potenziale assassino, e li invia alla Parallax. Contattato dalla società viene sottoposto a un secondo test, di carattere visivo, con immagini che da serene e positive diventano rapidamente violentissime. Frady, cercando di capire quale è l’azione a cui deve partecipare, raggiunge un auditorium dove sta provando un discorso il senatore Hammond. Quando il senatore viene ucciso il giornalista cerca di fuggire, ma viene colpito da un uomo della Parallax. La commissione d’inchiesta dichiara che Frady ha agito da solo e che ogni trama eversiva è da escludere.
Parallasse è lo spostamento apparente di un oggetto quando lo si osserva da due differenti punti di vista. La metafora del titolo originale è sottile.
Pakula, ispirandosi ai fatti di Dallas e alla vicenda di Lee Harvey Oswald (ma anche alla cecità della commissione Warren), costruisce un’opera incentrata sull’angoscia (americana, aggiungiamo noi). Joe è il nome comune e all american (G.I. Joe si chiama il prototipo del soldato americano), ma Frady è un perdente, un giornalista che sopravvive ai margini e che pure ha certe caratteristiche dello stoico individualista, mescolate a una filosofia da figlio dei fiori. Arrivato nel saloon di Salmontail ordina un bicchiere di latte; provocato dal vicesceriffo gli risponde: "non toccarmi se non mi ami".
Attorno a Frady tutti sono travolti dalla Parallax, ma sia il protagonista sia noi che guardiamo non riusciamo a capire cosa sia esattamente questa entità. Sappiamo solo che è dotata di un potere smisurato, con un’efficienza scientifica e un’essenza che sarebbe surreale se non fosse diabolica. Questa natura viene condensata nella proiezione-test cui assiste Frady nella sede dell’organizzazione: un insieme di elementi patriottici e mistici, di pulsioni superomistiche e di violenza che convergono in un messaggio di odio volto a esaltare il potenziale omicida dei candidati. Tutto poggia sull’accoppiamento di parole-simbolo: padre, madre, famiglia, patria, nemico, io, con rappresentazioni dapprima positive, poi sempre più ambigue e violente, fino a una completa inversione di significato con la subordinazione di tutte le immagini scioccanti al pronome "io". È uno sconvolgimento dei sentimenti più profondi dell’uomo: riprogrammabili per scopi aberranti, ma profondamente umani. Questa è una delle sequenze più spietate e politiche del cinema americano degli ultimi trent’anni.
Nel 1975 Sydney Pollack dirige "Three days of the Condor" (I tre giorni del Condor). Pollack è un intellettuale con una solida formazione teatrale (ha recitato e continua a farlo), nel 1975 ha quarant’anni e si è appena lasciato alle spalle tre film che a elencarli fanno venire un attacco isterico: "Non si uccidono così anche i cavalli" (1971), "Corvo Rosso non avrai il mio scalpo" (1972) e "Come eravamo" (1973). "I tre giorni..." è tratto da un romanzo di grande successo di James Grady (in realtà il libro si intitola "I sei giorni del Condor"): Joe Turner (Robert Redford), ex tecnico dell’esercito, lavora come lettore e analista presso l’American Historical and Literary Society, ragione sociale che nasconde un ufficio della CIA. Allontanatosi dall’ufficio all’ora di pranzo, Joe scampa miracolosamente al massacro di tutti i suoi colleghi ad opera di un misterioso commando.
Attirato in un tranello dal caposezione Wicks (Michael Caine), Joe (nome in codice Condor) riesce a fuggire dopo uno scontro a fuoco, e cercando di far perdere le tracce si rifugia nella casa di una donna incontrata per caso: Kathy (Faye Dunaway). Grazie all’intercettazione dell’agente Joubert (Max von Sidow), un killer travestito da postino arriva a casa di Kathy ma dopo una colluttazione verrà ucciso da Joe. Continuando le indagini Condor entra in contatto con Higgins (Cliff Robertson), un funzionario che prospetta l’inquietante scenario di una CIA nella CIA.
Nel romanzo il protagonista si chiama Ronald, nel film viene rinominato ancora una volta Joe. Ma anche in questo caso Joe non è uno qualunque, anzi quando lo vediamo per la prima volta è a cavallo di un anacronistico Solex, che denuncia la sua natura eccentrica. Nei primi minuti di film capiamo che è colto, acuto, incline alle soluzioni meno ovvie, con una visione del mondo che non ammette gerarchie. Aggiungiamo a tutto questo il volto di Redford, modello del giovane americano liberal, e il quadro è completo.
"I tre giorni del Condor" è un film sulla solitudine, sulla provvisorietà dei valori, sulla forza dell’istinto. È un film sulla perdita dell’innocenza che fa scoprire la frattura dolorosa del proprio mondo.
Per gli amanti del trivial diciamo che una sola critica è stata sempre mossa al film: la maniera troppo rapida con cui scatta la passione, tra Redford e la Dunaway. E questo è l’argomento della conversazione tra Jennifer Lopez e George Clooney, sceriffo lei evaso lui, chiusi nel cofano di una macchina nel film "Out of Sight".
"The Parallax View" è un’opera asfissiante e senza scampo: il potere, nascosto e indefinibile, schiaccia l’individuo che si oppone. Il labirinto è inespugnabile e si richiude su chi tenta di leggerne il segreto.
"Three days of the Condor" è invece un film tradizionale, risolto dal protagonista che riesce a volgere a suo vantaggio il meccanismo in cui si è trovato incastrato, a intravedere, seppur a caro prezzo, una piccola possibilità di rivincita.



La storia del cinema italiano è complessa e frastagliata, un arcipelago di isole spesso male o per nulla collegate tra loro. Gli anni sessanta rappresentano l’epoca dell’oro, attraversati da un’energia creativa che sembra inesauribile. La capacità produttiva e di rinnovamento è così alta, che nuovi talenti nascono senza mettere in ombra i maestri della generazione precedente. Fellini, Visconti, Antonioni, De Sica, Rossellini sono nel fiore della loro attività, mentre si affacciano sulla scena Ferreri, Bellocchio, Wertmuller, Bertolucci, Pasolini. Cinecittà in certi momenti ha un numero di set in attività maggiore di quello di Hollywood.
Ci troviamo di fronte a un panorama in continua fibrillazione e a un sistema di generi e filoni che vengono sfruttati con impressionante velocità: è quello che i critici americani definiscono exploitation cinema.
I generi più frequentati sono il western (spaghetti o anche maccheroni), avventuroso-fantascientifico, il peplum e lo spionistico. Quest’ultimo filone deriva ovviamente dal clamoroso successo della serie 007 ispirata al personaggio creato da Ian Fleming, sorta di superuomo che però è già parodia di se stesso con un complesso di castrazione da tenere continuamente a bada, una segretezza fittizia (e una crisi d’identità: "mi chiamo Bond, James Bond"), una miriade di fisime nevrotiche su uova da cuocere tre minuti e tre quarti, annate di Dom Perignon, cocktail astrusi.
Gli agguerritissimi produttori italiani non potevano certo lasciarsi sfuggire l’occasione e esplodono in una grandinata di titoli, sigle, miscugli alfanumerici: agente segreto 070, 077, 777; agente S35, SQ3, 3S3. Si mischiano prefissi telefonici e cap, codici fiscali impazziti e terni al lotto ("7-9-18: da Parigi un cadavere per Rocky, coproduzione francese con Louis De Funes). Già nel 1959 era arrivato "L’impiegato", regia di Gianni Puccini, in cui un impiegato del catasto (Nino Manfredi), ossessionato da una sorella possessiva e perseguitato da un collega innamorato della sorella (Andrea Checchi), trova sollievo in frequenti fughe oniriche nei panni di un’agente segreto. Puccini e Manfredi (qui anche sceneggiatore) giocano con i luoghi comuni, eliminando l’azione e riducendo la vita della spia a una serie di feste in piscina, cocktail, maratone erotiche, problemucci con la fidanzata (una sinuosa Anna Maria Ferrero platinum blond).
Ma stagione super affollata è quella 1965-1967 con una varietà e una bizzarria che coinvolge anche nomi eccellenti: "James Tont operazione U.N.O" (1965), diretto da Bruno Corbucci, vede l’agente James Tont (Lando Buzzanca non ancora homo eroticus) che con la sua Fiat 500 salva il mondo dai piani del dottor Goldsinger (Loris Gizzi). Da segnalare la partecipazione di Alighiero Noschese nel ruolo di Noskes! "James Tont operazione D.U.E" (1965, sempre di Corbucci): Tont deve sgominare una banda di pazzi che vuole distruggere la basilica di San Pietro; D.U.E è l’acrostico di Distruzione Urbe Eterna.
"Matchless" (1967), regia di Alberto Lattuada, è un piccolo gioiello pop che segue le imprese del giornalista Perry Matchell Liston, l’attore Patrick O’Neal, imprigionato dai cinesi come spia e aiutato da un anello che lo rende invisibile per 20 secondi (il mito di Gige?), oltre che dall’avvenente Arabella (Ira Fustenberg che mostra tutto quello che può).
In "Slalom" (1965), regia di Luciano Salce, un professionista in vacanza al Sestrière (Vittorio Gassman) viene coinvolto in un intrigo spionistico che lo trascinerà al Cairo. Ammiccanti le apparizioni di Daniela Bianchi (Bond girl in "Dalla Russia con amore") e di Adolfo Celi (cattivo di "Agente 007, Thunderball. Operazione Tuono").
In "Agente 3S3 massacro al sole" (1965), regia di Simon Sterling (ovvero Sergio Sollima), l’agente 3S3 (George Ardisson) sventa i piani di dominio del dittatore caraibico Siquieros (Fernando Sancho). Sui titoli di testa Orietta Berti gorgheggia la canzone "Le ore del sole".
In "A 008 operazione sterminio" (1965), regia di Umberto Lenzi, gli agenti 008 (Ingrid Schoeller) e 006 (Alberto Lupo) combattono contro una fantomatica "Potenza Nemica". Demenziale "OK Connery" (1966), diretto da Alberto De Martino, in cui Neil Connery (fratello di Sean) interpreta il ruolo del Dr. Connery, fratello imbranato di 007!
Non poteva sottrarsi al fascino del genere la coppia d’oro del cinema nazionale: Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. In "002 agenti segretissimi" (1964), regia di Vittorio Metz, Franco e Ciccio vengono scambiati per agenti del KGB e devono vedersela con spie americane e cinesi. Il seguito, "002 Operazione Luna" (1965), è un sublime delirio con la regia del maestro Lucio Fulci: Franco e Ciccio, due poveracci, sono i sosia degli astronauti sovietici Frankovic e Cicciornia, ritenuti dispersi. Per non compromettere una missione i due vengono spediti nello spazio con le conseguenze che immaginate. Fulci dà fondo al suo repertorio registico da serie B facendo miracoli con lucette da presepe che simulano il cosmo. A un certo punto i due cosmonauti incontrano lo scheletro della cagnetta Laika fluttuante nello spazio, in uno dei momenti più alti di cinismo storico del cinema italiano (forse solo alcune situazioni di "Totò e Peppino divisi a Berlino" sono paragonabili). Sempre nel ’65 arriva "Due mafiosi contro Goldginger", diretto da Giorgio Simonelli: il diabolico Goldginger (Fernando Rey) vuole scatenare una guerra tra USA e URSS per poi prendere lui il potere. Franco e Ciccio, fotografi ambulanti scambiati per agenti segreti, sgomineranno la banda.
Del 1966 è l’altro capolavoro "Le spie vengono dal semifreddo", diretto da Mario Bava: il dottor Goldfoot (Vincent Price) ha creato una serie di ragazze bomba che esplodono se vengono baciate. Un supercomputer della CIA viene sabotato e dell’indagine vengono incaricati gli agenti Franco e Ciccio. La missione conduce la coppia nel rifugio di Goldfoot, una villa sull’Appia fornita di piscina brulicante di piranas, ma il perfido dottore riesce a fuggire vestito da suora. L’inseguimento continua per mezza Europa, fino a che Franco e Ciccio non vengono catturati a Mosca e spediti in un gulag comandato dal diabolico Goldfoot. Il film si scatena in trovate demenziali: un clone cattivo di Franco, Ciccio travestito da ragazza in bikini, il regista Fulci in un’apparizione come angelo custode, tutta la parte russa con Franco che per il freddo fa il bagno nell’acqua degli spaghetti.
Sempre nel 1966 esce "Kiss Kiss…Bang Bang", diretto da Duccio Tessari: dopo una rocambolesca evasione che gli evita la forca, l’agente Warren (Giuliano Gemma) è incaricato di impadronirsi di una formula segreta che, si scoprirà, è custodita da un pappagallo di nome Socrate. Il film mescola sapientemente spionaggio e commedia, con strizzate d’occhio al signor Bond e una punta demenziale che non guasta (c’è anche la povera ma bella Lorella De Luca in versione ye-ye).
È interessante notare che vengono girati anche degli ibridi come "4...3...2...1...morte" (1967), regia di Primo Zeglio, film fantaspionistico: l’agente Perry Rhodan (Lang Jeffries) viene incaricato di un’indagine su una base lunare, troverà anche due alieni naufraghi. L’ambientazione in technicolor e la tecnologia quartomondista esplodono in un trionfo di plastiche e moplen molto fantastico e poco scientifico. Trash e sfacciati i tentativi di rappresentare l’assenza di gravità. In epoca pre informatica ogni guasto, inconveniente, colpo di scena viene risolto con la battuta: "il computer è impazzito!".
"La polizia accusa: il servizio segreto uccide" (1974), regia di Sergio Martino, è invece un incrocio tra spionaggio e genere poliziottesco: il commissario Giorgio Solmi (Luc Merenda) indaga su strani movimenti di ex militari e scopre un’organizzazione di estrema destra che prepara il golpe. A coordinare le operazioni il capitano Sperlì (Tomas Milian), uomo dei Servizi. Alla fine sia Solmi che Sperlì verranno eliminati.
Ovviamente la filmografia di genere italiana è sterminata, e in molti casi da riscoprire completamente. Noi abbiamo versato solo poche gocce per rendere omaggio a una cinematografia che ha generato e alimentato il culto di alcuni Santi, ma ha anche visto le gesta di molti straordinari fachiri.

Questo è (quasi) tutto. Ora sapete molto. Troppo.
(rumore di punto di chiusura…o era uno sparo?)



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